Quagliotti e Tanganelli, Commercialisti e Revisori Contabili a Firenze

Noi e il denaro: radiografia di un rapporto complesso
Perché esistono i ricchi avari e i poveri spendaccioni? Che cosa rappresenta il denaro per ciascuno di noi? Come e perché il nostro rapporto con il denaro è il riflesso della nostra personalità e non del nostro reddito. (I parte)

Il denaro ha un simbolismo molto potente. Per alcuni è sinonimo di forza, consente di esercitare un potere sugli altri, nella coppia, in famiglia o in azienda. Ma il denaro rappresenta anche la sicurezza, la protezione, soprattutto nelle persone di una certa età. Infine, il denaro è fonte di piacere, un piacere che può però assumere una dimensione malsana, per esempio quando serve a colmare un vuoto interiore: in questo caso, al pari del cibo o dell’alcool, il denaro svolge la funzione di riempire questo vuoto, con il rischio di produrre dipendenza. Peggio ancora quando il fatto di essere ricchi compensa una mancanza narcisistica, e si finisce per pensare che il denaro renda degni di amore.

Oggetto ambivalente, il denaro è un’invenzione formidabile, uno strumento senza pari per regolare i rapporti tra gli individui, e una conquista della civilizzazione che è senz’altro da proteggere. L’organizzazione delle relazioni per mezzo di un terzo mediatore, il denaro, ci  obbliga a considerare gli altri come nostri simili, anzi, come nostri pari; paradossalmente, il denaro impiegato unicamente come strumento di misura ci impedisce in qualche modo di prevaricare sul nostro prossimo.

Il sistema salariale, per esempio, sanziona l’impiego della forza lavoro senza compensazione economica. Si può essere in disaccordo sulla somma erogata, ma non sul principio. In effetti, l’espressione “guadagnarsi da vivere” è relativamente recente ed è il frutto della società degli scambi, nella quale l’individuo “affitta” la sua forza lavoro e riceve in cambio un salario che gli consente di acquistare ciò di cui ha bisogno o semplicemente voglia.           

Non più tardi di 500 anni fa, “guadagnarsi da vivere” aveva un significato del tutto diverso: chi prestava la propria opera doveva rendere al signore un certo numero di servigi, e l’organizzazione sociale era tale che ciascuno, bambino o adulto, era obbligato a delle servitù. Esistevano perciò compiti ai quali bisognava sottomettersi per avere il diritto a un tetto, al cibo o semplicemente alla sopravvivenza. Ovunque e in tutte le epoche il lavoro è l’elemento  essenziale della vita della società, ma il fatto di venire compensati in denaro per le proprie prestazioni aumenta il grado di libertà degli individui perché almeno teoricamente, chiunque riceva un compenso lo può spendere nel modo che desidera.

Tuttavia, il denaro continua a suscitare enormi ambivalenze: se la società del consumo lo venera, le religioni lo disprezzano. Nelle religioni monoteistiche occidentali, e soprattutto in quella cattolica, il denaro viene condannato in quanto può potenzialmente trasformarsi in una specie di divinità pagana. Al di là della pratica dell’usura, la religione cattolica combatte l’attaccamento eccessivo al denaro quando questo funge da protezione fallace contro le angosce metafisiche.

Se il denaro non rende felici
La ricerca empirica conferma che
la felicità si raggiunge in settori ‘ordinari’ della vita - nella famiglia, con gli amici, e nel lavoro. Tutti sappiamo che il livello di benessere cresce con il reddito, ma questo vale soprattutto in relazione al punto di partenza: c’è più felicità nel passare da una vita miserabile a una in cui le esigenze fondamentali sono soddisfatte, che nel diventare un po’ (o molto) più ricchi di quanto si era già, perché “man mano che la situazione migliora – scrive Pinker - i ricavi in termini di accresciuto benessere diminuiscono: più cibo è meglio, ma solo fino a un certo punto. Man mano che la situazione peggiora, invece, il decrescere del benessere può finire per escluderti dal gioco: non abbastanza cibo, e sei morto.” Gli esseri umani hanno un’attitudine ormai confermata da tutti gli studi: per tutti noi le perdite contano più dei guadagni, e per una ragione tutt’altro che allegra: “per stare molto peggio ci sono molti modi, mentre per stare molto meglio no. Il che rende le possibili perdite più meritevoli di attenzione dei guadagni: ci sono più cose che ci rendono infelici di quante ci rendano felici.”

L’erba del vicino…

“Avere successo non basta. Bisogna che falliscano gli altri”
Gore Vidal

Il nostro stato relativo, cioè la nostra condizione rispetto a quella degli altri, è più importante della nostra fortuna in termini assoluti, e questo spiega perché sentiamo il bisogno di misurarci costantemente con il prossimo. Gran parte del nostro malessere deriva dall’invidia, come scrive Pinker: “nel corso dei secoli, gli osservatori della natura umana hanno fatto notare questo aspetto tragico della questione: le persone sono felici quando stanno meglio del loro prossimo, infelici quando stanno peggio.”

Una ricerca condotta da Diener mostra che il tasso più alto di benessere soggettivo si riscontra nei paesi che hanno il livello economico più elevato, i diritti civili più evoluti, e una cultura fondata sull’individualismo. Ma nella realtà di tutti i giorni, per quanto benessere vale la pena di darsi da fare? Ecco come risponde Pinker: “perché l’ottimo non sia nemico del bene, occorre che il perseguimento della felicità sia tarato su ciò che è ottenibile con sforzi ragionevoli nell’ambiente in cui ci si trova a vivere. Come sappiamo che cosa è ragionevolmente ottenibile? Una buona fonte di informazioni è ciò che hanno ottenuto gli altri. Se possono averlo loro, forse possiamo averlo anche noi.”

Steven Pinker, Come funziona la mente, Mondadori, 2002

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